Uno scontro che dura da anni e coinvolge più nazioni.

Articolo originale di Giorgio Da Gai

L’inimicizia tra Iran e gli Stati Uniti risale agli anni “50” del secolo scorso. Tutto inizia con la crisi di Abadan o crisi anglo iraniana (1951 – 1954). Crisi nata dalla decisione del governo iraniano di nazionalizzare l’Anglo-Iranian Oil Company (Aioc), la multinazionale britannica che gestiva lo sfruttamento del petrolio iraniano. Il governo del nazionalista Mohammad Mossadeq intendeva riappropriarsi della principale risorsa del Paese, indispensabile al suo sviluppo economico e sociale. La nazionalizzazione iraniana era la prima sfida di un Paese produttore di petrolio alla politica di una nazione colonialista come la Gran Bretagna. Nel 1953 un colpo di stato sostenuto dai servizi segreti americani (CIA) e da quelli britannici (M16) metteva fine al governo nazionalista di Mossadeq. Gli inglesi, non perdonarono a Mossadeq la nazionalizzazione dell’Anglo-Iranian Oil Company (Aioc), la multinazionale controllata per il 52% dal governo britannico; gli americani temevano che Mossadeq, sostenuto dal partito comunista iraniano (Majlis) portasse l’Iran nella sfera d’influenza sovietica. La destituzione di Mossadeq riportò al potere lo Scià Mohammed Reza Pahlavi. Da allora un consorzio di compagnie petrolifere (americane, inglesi, francesi e olandesi) che avrebbe estratto, raffinato e commercializzato la principale risorsa del Paese; dividendone a metà i profitti con il governo iraniano.
L’Iran dal 1953 alla rivoluzione islamica del 1979, fu governato dallo scià Mohammad Reza Pahlavi, in tale periodo le relazioni tra l’Iran e gli Stati Uniti furono buone; come quelle tra l’Iran e i propri vicini (Israele o le petromonarchie del Golfo). Il regime laico e anticomunista dello scià era per gli Stati Uniti un fedele alleato nella lotta all’Unione Sovietica e un importante partner commerciale. Per Israele e per le petromonarchie, l’Iran era un pacifico vicino che non ambiva a modificare la geopolitica mediorientale. La rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini pose fine all’“idillio”.
La rivoluzione iraniana del 1979 portò al potere l’Ayatollah Khomeini. Quest’ultimo rifiutava sia il modello marxista che quello capitalista; credeva che lo sviluppo dell’Iran fosse legato indissolubilmente alla tradizione islamica. Sotto la guida di Khomeini l’Iran si trasformò in una teocrazia. Un Paese retto da un governo autoritario ma capace di assicurare alla popolazione un benessere diffuso; uno Stato sovrano e una potenza regionale.
La svolta “sovranista” e islamista dell’Iran minacciava gli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati della Regione, ne seguì uno scontro che dura da anni e potrebbe degenerare in conflitto. Cercherò di riassumere le tappe principali: la vicenda degli ostaggi americani (1979) la guerra Iraq – Iran (1980 – 1988), il ruolo dell’Iran nelle recenti crisi mediorientali (Libano, Yemen e Siria) e la spinosa questione del nucleare iraniano.
La vicenda degli ostaggi americani (1979 – 1981). Lo scia dopo la rivoluzione del 79 fuggì in Egitto, qui malato di cancro chiese agli Stati Uniti il visto d’ingresso per potersi curare. La concessione del visto al monarca malato scatenò le ire del governo iraniano che intendeva arrestare e processare lo scia; un’ondata d’indignazione fomentata dalle istituzioni iraniane, attraversò il Paese e l’America divenne per gli iraniani il “Grande Satana”. La situazione in breve degenerò. Il 4 novembre del 1979 un gruppo di studenti iraniani entrarono nell’ambasciata americana e ne sequestrarono il personale accusandolo di spionaggio, fu un atto di aperta violazione delle leggi internazionali. Gli Stati Uniti non si diedero per vinti, nel 1980 cercarono di liberare manù militari gli ostaggi (operazione Eagle Clauw); l’azione finì con un umiliante insuccesso militare e politico, che fu decisivo per la sconfitta elettorale del presidente Jimmy Carter. Gli ostaggi americani rimasero nelle mani dei sequestratori per 444 giorni, furono liberati nel gennaio del 1981 grazie ad un accordo tra Iran e Stati Uniti (presidenza Regan). Tale accordo prevedeva: la liberazione degli ostaggi illegalmente detenuti, lo sblocco dei fondi iraniani depositati presso le banche americane (bloccati dopo il sequestro degli ostaggi) la riaffermazione del principio di non ingerenza.
La vicenda degli ostaggi lasciò un segno profondo nella coscienza degli americani, come la Guerra del Vietnam e gli attentati dell’11 settembre 2001. Questo spiega ma non giustifica il rancore che gli stessi nutrono verso il regime iraniano.
Il conflitto Iraq-Iran (1980-1988). Nel settembre del 1980 Saddam Hussein appoggiato dagli Stati Uniti e dalle monarchie del Golfo invase il sud dell’Iran, occupando la provincia di Khouzestan. Un’area strategica ricca di petrolio e con uno sbocco sul mare (l’Iraq è povero di sbocchi sul mare). Ne seguì un conflitto sanguinoso che terminò nell’agosto del 1988 provocando quasi un milione di vittime ma senza modificare i confini tra i due Paesi. In questo conflitto va inserito il tragico episodio dell’abbattimento del volo 655 dell’Iran Air: il 3 luglio 1988 un incrociatore della marina militare americana abbatté con un missile un aereo civile iraniano, diretto a Dubai, causando la morte di tutti i 290 passeggeri, inclusi 66 bambini. Le vittime civili sono una costante degli interventi militari americani: i bombardamenti “terroristici” della II Guerra Mondiale sulle città tedesche e italiane; le atomiche sul Giappone; le migliaia di vittime civili provocate dai droni e dalle bombe americane in Kosovo, in Iraq e in Afghanistan.
Gli Stati Uniti sostennero militarmente l’alleato iracheno ma in due occasioni vendettero armi agli iraniani: lo fecero per ottenere il rilascio di sette ostaggi americani detenuti da Hezbollah in Libano; e per sostenere la guerriglia Contras durante la guerra Civile in Nicaragua (1985-1986). La vendita di armi o il finanziamento dei Contras violava l’emendamento Bolan, una norma del Congresso americano per impedire ingerenze nelle vicende interne degli Stati latinoamericani in guerra civile. Ne seguirà lo scandalo Iran-Contra o Irangate che coinvolse la presidenza Regan.
L’Iran come potenza regionale del Medioriente. Un attore geopolitico che condiziona tutta la politica mediorientale; insieme alla Russia, alla Cina e al Venezuela, fa da argine alle velleità imperialiste degli Stati Uniti, che hanno destabilizzato il Medioriente. Oggi l’Iran è la guida politica e spirituale dell’Islam sciita, la sua influenza si concentra nella mezzaluna sciita, un’area geografica che comprende: l’Iran, la Siria, le provincie a maggioranza sciita dell’Iraq, il Libano e lo Yemen. L’Iran è presente nelle principali crisi mediorientali. In Siria sostiene Assad e combatte il terrorismo islamico che è di matrice sunnita (Al Qaida, il Califfato e le varie milizie jihadiste); sempre in Siria, sostiene Hezbollah che dalle basi siriane minaccia direttamente Israele. In Libano appoggia Hezbollah nello scontro con Israele, il ruolo dell’Iran è stato decisivo nel conflitto per il controllo del Libano meridionale (1982-2000). In Palestina l’Iran si schiera al fianco di Hamas nella guerra con Israle. Nello Yemen l’Iran sostiene i ribelli sciiti Houthi che combattono il governo centrale del presidente Hadi sostenuto dall’Arabia Saudita.
L’ipotesi di dover sostenere un conflitto con nazioni dotate di armi nucleari (Stati Uniti e Israele) e l’uscita unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, potrebbero indurre l’Iran a dotarsi dell’atomica per fini di deterrenza. Con tale arma l’Iran potrebbe sostenere un conflitto con qualsiasi nemico senza timore di soccombere in una guerra convenzionale. Se Israele non avesse i missili dotati di testate nucleari rischierebbe di venire annientato dagli Stati arabi e dall’Iran; se il dittatore nord coreano non avesse l’atomica avrebbe fatto la fine di Saddam e di Gheddafi. Assad, privo dell’atomica è ancora al potere solo grazie all’intervento russo e al sostegno iraniano.
La questione del nucleare iraniano. Lo sviluppo del programma nucleare iraniano fu la scelta più importante della presidenza di Ahmadinejad (2005 – 2013). Un programma nato ufficialmente per scopi pacifici (la diversificazione delle fonti energetiche); ma in realtà utile anche a un impiego militare. La scelta del presidente iraniano minacciava la sicurezza di Tel Aviv (Ahmadinejad affermava di voler “cancellare” Israele e negava l’Olocausto) e dell’intera comunità internazionale (la proliferazione nucleare). Il regime iraniano rimase isolato e subì il peso delle sanzioni internazionali promosse dagli Stati Uniti.
Una soluzione alla delicata questione fu l’accordo sul nucleare iraniano o Joint Comprehensive Plan for Action (JCPOA). Un accordo stipulato tra l’Iran e i cinque membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Stati Uniti, Cina, Russia, Francia e Gran Bretagna) più la Germania e l’Unione Europea. L’accordo firmato a Vienna il 14 luglio 2015 impegnava l’Iran a rinunciare a ogni attività legata allo sviluppo di armi nucleari (l’arricchimento dell’uranio e la costruzione di nuovi impianti nucleari) in cambio di un alleggerimento delle sanzioni.
L’accordo voluto dal presidente Obama di fatto rafforzava l’Iran: lo toglieva dall’isolamento internazionale e dava ossigeno alla sua economia soffocata dalle sanzioni.
L’8 maggio 2018 gli Stati Uniti per volontà del Presidente Trump annunciano l’uscita unilaterale dall’accordo e il 5 novembre rinnovano le sanzioni economiche contro l’Iran. Lo scopo degli Stati Uniti è indurre “il brutale regime iraniano” a “cessare la propria attività destabilizzante”. Gli Stati Uniti temono l’influenza dell’Iran nella politica mediorientale e fanno di tutto per contenerla. La decisione americana non ottiene l’appoggio della Francia, della Cina, del Regno Unito e della Germania. Nazioni che nel mercato iraniano hanno investito e considerano la decisione americana priva di giustificazione, l’Iran ha sempre rispettato le condizioni dell’accordo. L’Iran reagisce a questo voltafaccia riavviando il programma di arricchimento dell’uranio.
Venti di guerra nel Golfo Persico. Tra maggio e luglio si riaccende lo scontro tra l’Iran e i suoi nemici storici (le petromonarchie del Golfo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna): sabotaggi di petroliere delle quali è accusato l’Iran (pur in mancanza di prove), sequestri di petroliere (prima da parte della marina britannica a Gibilterra e poi da parte dei Guardiani della Rivoluzione nello Stretto di Hormuz) l’abbattimento di un drone americano da parte dei Pasdaran, Riad che si impegna a ospitare truppe americane per garantire la sicurezza della regione (l’ultima volta fu nel 2003 in occasione dell’invasione americana dell’Iraq).
Nello Stretto di Hormuz si concentra lo scontro, l’area di mare che divide la Penisola arabica dall’Iran e collega il Golfo dell’Oman con il Golfo Persico. Lo stretto di Hormuz è strategico: da li passa circa il 20% del commercio mondiale di petrolio (17 milioni di barili) e le sue caratteristiche fisiche (stretto e poco profondo) consentono all’Iran di sfruttare al meglio le tattiche della guerra asimmetrica, l’unica possibile in un confronto impari con gli Stati Uniti.
Chiudere lo stretto sarebbe per Teheran una manovra estrema alla quale ricorrere solo nel caso di conflitto; meglio usare lo stretto come palcoscenico per esibizioni muscolari destinate ad aggregare il consenso interno al regime, o per spronare gli avversari a tornare al tavolo delle trattative. L’Iran vuole trattare e ha inviato inaspettatamente, il ministro degli Esteri, al G7 che in agosto si è tenuto nella città francese di Biarritz. Le sanzioni americane hanno messo a dura prova l’economia iraniana che ora attraversa un periodo di recessione: l’inflazione nel 2018 ha sfiorato il 40% e il riyal ha ceduto il 100% in 12 mesi, l’esportazione di petrolio si è dimezzata dopo il rinnovo delle sanzioni.
A nessuno conviene la guerra ma la situazione potrebbe sfuggire al controllo delle parti, le teste calde non mancano sia da parte iraniana sia americana; inoltre, ad alimentare le tensioni ci sono l’Arabia Saudita e Israele. Paesi che mirano a mantenere l’Iran in una situazione di perenne conflitto e d’isolamento internazionale, nella speranza che alla fine il regime collassi.

in copertina:  Raggio di minaccia stimato per i missili iraniani Shahab-3

La mattina del 18 aprile 1988 ebbe inizio l’operazione Praying Mantis … La fregata iraniana IS Sahand brucia dopo essere stata attaccata da un aereo della Carrier Air Wing II della portaerei nucleare USS Enterprise (CVN-65), La nave fu colpita da tre missili Harpoon più bombe a grappolo. L’operazione fu una ritorsione a seguito del danneggiamento nel Golfo Persico centrale il 14 aprile, con una mina navale M-08 (presunta iraniana) del USS Samuel B. Roberts (FFG-58) Statunitense.
An Iranian command and control platform is set afire after being shelled by four US Navy destroyers. The shelling is a response to a recent Iranian missile attack on a reflagged Kuwaiti super tanker. – – – Una piattaforma di comando e controllo iraniana incendiata dopo essere stata bombardata da quattro cacciatorpediniere della Marina americana. Il bombardamento è una risposta a un recente attacco missilistico iraniano contro una super petroliera del Kuwaiti .

 

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